La protezione dei whistleblower: la direttiva UE al vaglio della Corte EDU

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In collaborazione con Ius in itinere

Lo scorso mese si è parlato dell’introduzione di una specifica normativa comunitaria in tema di whistleblower, che rafforza la tutela per quei soggetti, all’interno di un’organizzazione, decidono di segnalare all’autorità giudiziaria ed alti organi di controllo eventuali attività illegali a cui abbia assistito. La decisione della Commissione è condivisa non solo dalla società civile, i cui rappresentanti si sono sempre battuti per una maggiore trasparenza, ma anche dal Consiglio d’Europa.

Nel suo rapporto del 2016[1], il Consiglio stabilisce una serie di linee guida rivolte agli Stati nella tutela dei whistleblower, distinguendo in particolare tra tre categorie differenti: gli open whistleblowers, la cui identità è nota, i confidential whistleblowers, conosciuti solo da una ristretta cerchia di soggetti con compiti di controllo, e gli anonymous whistleblowers, la cui identità è sconosciuta o coperta da anonimato. In questo senso, gli Stati, nel tutelare i testimoni, devono rispettare alcuni principi generali: trasparenza, tutela dell’anonimato e confidenzialità nella diffusione di informazioni sensibili[2].

È la stessa Commissione, nella sua comunicazione agli altri organi comunitari[3], a riconoscere come la questione whistleblowing sia affrontata in prima linea dal Consiglio e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare tutelando coloro che compiano dette segnalazioni ma offrendo anche “garanzie e mezzi di ricorso alle persone danneggiate da segnalazioni inesatte o effettuate in malafede”. Questo duplice impegno di istituzioni comunitarie e continentali è però fonte tanto di opportunità quanto di possibili contrasti tra norme convenzionali e norme del diritto dell’UE: i principi affermati dalla CEDU sono aderenti al nuovo regolamento UE (e viceversa)?

La Corte di Strasburgo, in questo senso, ha affermato che la protezione della libertà di espressione, ai sensi dell’articolo 10 CEDU, si estende anche a quei soggetti – i whistleblower, appunto – che riportino ad autorità di controllo comportamenti illeciti o illegali avvenuti sul posto di lavoro, siano essi dipendenti pubblici o privati. Nella sentenza Guja c. Moldavia[4], la Corte si è pronunciata sul caso di un whistleblower che, dopo aver inviato alcune lettere che contenevano la prova di atti di corruzione, è stato licenziato e accusato e condannato, insieme al giornale che le ha pubblicate, di aver rivelato documenti coperti da segreto.

Nella sentenza, i giudici hanno considerato analiticamente la posizione del singolo ricorrente, affermando come una possibile violazione delle norme convenzionali da parte dell’autorità debba essere valutata alla luce di alcune considerazioni pratiche.

Ci si deve chiedere, in prima battuta, se il whistleblower avesse altri canali interni per condividere le informazioni “compromettenti” prima di renderle pubbliche. In altre parole, la Corte afferma che il dipendente dovrebbe prima rivolgersi al suo immediato superiore o ad autorità interne di controllo, rivolgendosi poi al pubblico – e, in particolare, all’autorità giudiziaria – solo nel caso in cui non vi siano forme di audit interne o queste siano concretamente impraticabili[5]. Viceversa, la proposta della Commissione pone dei paletti molto rigidi, stabilendo come il whistleblower debba rivolgersi prevalentemente ad autorità capaci di vagliare e gestire la denuncia; appellarsi a giornali e, più in generale, al pubblico è ammesso solamente in casi eccezionali, ossia quando vi sia un imminente pericolo per un interesse pubblico o che stia per materializzarsi un danno irreversibile (art. 4). Su questo primo aspetto, mentre la giurisprudenza della Corte è più pragmatica e garantisca, la Direttiva sceglie una via più rigorosa e conservativa.

Strettamente collegato a questo primo aspetto, la Corte si chiede, in seconda misura, se vi sia o meno un interesse pubblico nella divulgazione delle informazioni qualora queste siano diventate di dominio pubblico[6]. Su questo punto, tanto la Direttiva quanto le pronunce dei giudici di Strasburgo non danno una definizione precisa di “interesse pubblico”, anche se il loro approccio diverge dal punto di vista pratico: mentre la Corte si riferisce alla necessità che certe informazioni possano essere divulgate – anche violando il principio di confidenzialità – per l’interesse superiore di una società democratica, la Commissione elenca, all’art. 1, una serie di interessi pubblici particolarmente rilevanti, tra cui salute e ordine pubblico, tutela dell’ambiente e protezione dei consumatori finali.

Al netto di queste valutazioni di carattere generale, molto più esposte ad una valutazione caso per caso, la Corte procede analizzando la posizione del whistleblower, considerando (a) la veridicità delle informazioni diffuse e (b) la sua buona fede.

Per quanto concerne il primo punto, l’onere di vagliare le informazioni ricevute o acquisite spetta tanto in capo al singolo individuo quanto alle autorità di controllo, che devono accertare la sussistenza di “reasonable grounds” circa la veridicità degli elementi raccolti[7].

Più complessa è la questione relativa alla buona fede, alla luce della sussistenza di un possibile conflitto tra interesse personale – pensiamo al caso di chi denuncia un rivale diretto per una promozione – e interesse pubblico. In realtà, nell’opinione della Corte tale contrasto non è rilevante, pertanto si potrebbe comunque offrire protezione ai sensi dell’art. 10 anche al whistleblower in “mala fede”, purché sussistano gli elementi prima visti in relazione a veridicità della segnalazione, tutela di un interesse pubblico e scelta di mezzi di comunicazione e diffuse delle informazioni, per così dire, “discreti”[8]. Simile è la proposta della Commissione sul punto, che richiede sostanzialmente solamente la sussistenza di due requisiti: la veridicità e la pertinenza delle informazioni diffuse rispetto al comportamento che viene denunciato.

Ammettendo la sussistenza di tutti i requisiti prima visti, la Corte si concentra poi con quelle che potremmo definire le conseguenze della denuncia.

In primo luogo, un esposto in cui si denuncia il malfunzionamento di un organo pubblico o il comportamento scorretto – o addirittura illegale – dei suoi rappresentanti rappresenta un problema per le autorità, dal momento che viene minata la fiducia del pubblico e della popolazione nell’integrità delle istituzioni. La Corte è dunque chiamata a svolgere un bilanciamento tra il tipo di informazioni rivelate, un generale principio di segretezza circa alcune categorie di informazioni e l’interesse pubblico che il whistleblower vuole (o pensa di) tutelare. Questo bilanciamento ha portato la Corte a pronunciarsi, riconoscendo protezione a whistleblower, in ambiti molto diversi: da irregolarità commesse all’interno dell’autorità giudiziaria e dei servizi segreti fino a casi di condotte illecite tenute all’interno di società controllate dallo Stato[9].

È in particolare in tema di corruzione che la Corte è molto esigente, affermando come qualsiasi forma di pressione o alterazione del regolare funzionamento delle istituzioni debba essere diffusa e diventare oggetto di dibattito pubblico[10]. La proposta della Commissione è invece più orientata a tutelare gli individui qualora siano oggetto di accuse infamanti, pretestuose o strumentali, essendo proprio su questi due aspetti – interesse pubblico e tutela della reputazione, anche professionale, degli individui – che si fonda l’approccio comunitario sul punto. Per questo motivo, pur nelle sue mancanze, la Commissione invita ogni organismo a dotarsi di un sistema di controllo interno, in modo da evitare fughe di notizie che potrebbero danneggiare l’immagine e la reputazione degli individui.

Un secondo e ultimo aspetto riguarda le sanzioni eventualmente comminate ai danni dei whistleblowers. Tanto la Corte europea quanto la Commissione sono concordi nel riconoscere come ogni tipo di sanzione – fino ad arrivare al licenziamento – incidono grandemente sulla posizione lavorativa, ma anche sulla situazione privata e familiare, dell’individuo. L’art. 15 della proposta della Commissione, in questo senso, invita gli Stati ad adoperare ogni misura utile per proteggere i whistleblower dalle conseguenze negative della loro denuncia.

Come evidenziato da diversi commentatori[11], Unione Europea e CEDU sono quasi “naturalmente portate” a convergere su molti aspetti relativi alla tutela dei whistleblowers. Senonché, il vero e proprio contrasto emerge su uno dei punti più importanti della questione, ossia i soggetti a cui il dipendente può rivolgersi, i cosiddetti channels of reporting. I già visti limiti imposti dalla proposta della Commissione rendono molto meno effettiva una tutela che invece, sulla carta, risulta essere completa ed ispirata a solidi principi.

[1] Consiglio d’Europa, Protection of Whistleblowers: a Brief Guide for Implementing a National Framework, Agosto 2016.

[2] Raccomandazione CM/REC(2014)7 del Consiglio dei Ministri d’Europa.

[3] Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, COM(2018)214.

[4] Corte EDU, Guja c. Moldavia, ricorso n. 14277/04, sentenza 12 febbraio 2008.

[5] Ibid., §73, in cui la Corte utilizza le parole “clearly impracticable”.

[6] Ibid., §§85 – 88.

[7] Riprendendo anche la formulazione dell’art. 33 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione.

[8] Come riconosciuto a favore del ricorrente nella sentenza Corte EDU, Guja c. Moldavia, cit., §§92 – 94.

[9] Corte EDU, Guja c. Moldavia, cit.; Corte EDU, Toma and Bucur c. Romania, ricorso n. 40238/02, sentenza 8 gennaio 2013.

[10] Corte EDU, Kudeshkina c. Russia, ricorso n. 29492/05, sentenza, 26 febbraio 2009.

[11] Si veda Abazi V., Kusari F., Comparing the Proposed EU Directive on Protection of Whistleblowers with the Principles of the European Court of Human Rights, Strasbourg Observer, 22 ottobre 2018.

 

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