A cura di: Dott.ssa Laura De Rosa
La società umana è affetta da un male (apparentemente) incurabile: la corruzione. Termine, questo, che se nell’accezione comune indica uno stato di degenerazione spirituale e morale, sul piano giuridico si traduce in termini delittuosi. Delitto che il legislatore penale italiano non ha mancato di perseguire dedicandovi alcuni articoli del Titolo II del Libro II del codice penale intitolato “Dei delitti contro la pubblica amministrazione” (artt. 318 e ss. c.p.).
La gravità di tale fattispecie delittuosa non sta “soltanto” nel bene giuridico offeso, ovvero buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione – principi, tra l’altro, consacrati a livello costituzionale dall’art. 97 della Carta Fondamentale dello Stato) –, ma anche in quella forma di corruzione che Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, definisce la corruzione che “si addensa ma non scoppia”. Ciò che rende, cioè, così difficile estirpare tale male dalla società è quel senso comune di arrendevolezza ed abitudine che si viene registrando nella pubblica opinione, quasi come se la corruzione fosse un tratto ineliminabile e naturale del funzionamento dell’apparato amministrativo. La gravità, dunque, sta proprio nella percezione sociale di tale fenomeno delittuoso che deve essere modificata: la corruzione deve essere identificata come anomalia e non normalità, come eccezione e non regola, come patologia e non fisiologia.
La lotta alla corruzione, ovviamente, non può prescindere dall’appannaggio di strumenti giuridici efficienti ed efficaci. Di questo il legislatore italiano ne è ben cosciente e difatti numerose sono le riforme intervenute in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, in ultimo la legge 27 maggio 2015 n. 69, ivi in esame.
Per vero, le strutture degli artt. 319 e 318 c.p. erano già state modificate, rispettivamente, dalla riforma del ’90 e dalla novella del 2012. Le norme, rubricate l’una “corruzione per un atto d’ufficio” (art. 318), l’altra “corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio” (art. 319, la cui rubrica è rimasta immutata), erano originariamente imperniante sul concetto di atto: la fattispecie di corruzione propria ricorreva, difatti, nel caso in cui l’accordo criminoso avesse ad oggetto un atto contrario ai doveri d’ufficio (e per questo ipotesi più grave); quella di corruzione impropria qualora un pubblico ufficiale ponesse in essere un atto conforme ai doveri d’ufficio ma dietro corresponsione di un’utilità. Con la riforma del 2012 la corruzione impropria si libera dal concetto di “atto” per incentrarsi sul mercimonio delle funzioni pubbliche competenti al pubblico ufficiale corrotto. L’obbiettivo della legge n. 190 era quello di colmare la lacuna di tutela penale nell’ipotesi in cui, pur essendoci stato un accordo corruttivo, il pubblico ufficiale non avesse ancora realizzato la condotta delittuosa ponendo in essere un atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio nell’interesse altrui. Il legislatore del 2012, in realtà, non ha fatto altro che ratificare un indirizzo giurisprudenziale che, interpretando analogicamente l’art. 319 c.p., riconduceva l’ipotesi corruttiva in cui mancava un atto contrario o conforme ai doveri d’ufficio alla fattispecie di corruzione propria sull’assunto che il mercimonio di una pubblica funzione configura sempre un atto contrario ai doveri d’ufficio così come sanciti nell’art. 97 della Costituzione.
Lungi dall’essere una riforma realmente incisiva, la legge del 2012 è stata oggetto di numerose critiche che hanno evidenziato come la modifica apportata all’art. 318 c.p. abbia sollevato numerosi problemi applicativi e di politica criminale a causa della divaricazione sul piano sanzionatorio delle due fattispecie di corruzione, per un atto contrario ai doveri d’ufficio e per l’esercizio della funzione. La reazione giurisprudenziale è stata, allora, quella di abrogare de facto l’art. 318 c.p., sussumendo i casi di mercimonio delle pubbliche funzioni nell’art. 319 c.p., punito con pene più alte e presentante un minor rischio di prescrizione. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, considerava il mercimonio di pubbliche funzioni più grave rispetto al compimento di un singolo atto d’ufficio trattandosi, per l’appunto, di mettere l’esercizio di una pubblica funzione a disposizione di interessi privati e non meritevoli di tutela.
La riforma del 2015 nasce, evidentemente, dall’insoddisfazione verso quella del 2012, aspramente criticata sia sul versante sanzionatorio – poiché l’abbassamento di alcuni limiti edittali di pena si traduceva in una riduzione del termine di prescrizione –, sia per l’introduzione della figura ibrida dell’art. 319 quater c.p., difficilmente inquadrabile rispetto ai delitti di concussione e corruzione.
Oggi l’art. 318 c.p., rubricato “Corruzione per l’esercizio della funzione”, punisce con la reclusione da uno a sei anni il pubblico ufficiale (e l’incaricato di un pubblico servizio, come disposto dall’art. 320 c.p.) che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa. Il successivo art. 319 c.p., rubricato “Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio”, punisce, invece, con la reclusione da sei a dieci anni il pubblico ufficiale (o l’incaricato di un pubblico servizio) che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o aver compiuto un atto contrario ai suoi doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità.
Venendo meno l’ “atto” come elemento costitutivo della fattispecie penale, il delitto di corruzione si presenta oggi come reato naturalisticamente plurisoggettivo (in particolare bilaterale) a concorso necessario in cui elemento fondamentale è la presenza di un accordo. Ciò che caratterizza il reato di corruzione è, cioè, la stipula di un negozio giuridico a prestazioni sinallagmatiche con causa illecita, rilevante penalmente a prescindere dalla sua esecuzione.
Nella fattispecie criminosa descritta dall’art. 318, la pubblica funzione esercitata dal pubblico ufficiale (o dall’incaricato di pubblico servizio) è asservita al privato corruttore in cambio di denaro o altra utilità. Nella più grave ipotesi dell’art. 319, invece, il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio) rinnega la propria funzione pubblica mettendosi al servizio del privato corruttore e ponendo in essere un atto contrario ai doveri d’ufficio al fine di trarre un vantaggio per sé o per un terzo. Egli agisce, cioè, in spregio al dovere di correttezza ed imparzialità che l’art. 97 della Costituzione pone a carico della pubblica amministrazione. Quando, poi, oggetto dell’accordo delittuoso ex art. 319 è il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l’amministrazione alla quale il pubblico ufficiale appartiene, nonché il pagamento o il rimborso di tributi, la pena viene aumentata ai sensi dell’art. 319 bis c.p.
La rilevanza penale dell’accordo illecito fa sì che ad essere punito non sia soltanto il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che abbia ricevuto indebitamente una prestazione per l’esercizio di una sua funzione o per il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, ma anche il privato corruttore. Difatti, l’art. 321 c.p. estende le pene previste dagli artt. 318, 319, 319 bis (circostanze aggravanti) e 320 anche a “chi dà o promette al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio il denaro o altra utilità”. Non manca, però, chi sostiene che l’art. 321 c.p. in realtà introdurrebbe una differente fattispecie criminosa, con la conseguenza che gli artt. 318, 319 e 321 integrerebbero due diverse fattispecie monosoggettive autonome: corruzione passiva (artt. 318 e 319 c.p.) e corruzione attiva (art. 320 c.p.). Senonché dalla lettera dell’art. 321 c.p. evidente è la natura speculare della norma rispetto agli artt. 318 e 319 c.p. Difatti la giurisprudenza dominante è concorde nel ritenere la corruzione un reato contratto a concorso necessario, escludendosi così che l’art. 320 descriva una nuova ipotesi delittuosa.
Dal punto di vista dei soggetti attivi, la corruzione si qualifica allo stesso tempo come reato “proprio”, con riguardo alla figura del soggetto corrotto (perché suo autore può essere solo un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio), e come reato “comune”, rispetto alla figura del corruttore (che può essere qualunque privato cittadino).
Importanti sono le modifiche apportate dal legislatore sul piano delle pene con riguardo al delitto di corruzione, aumentando il divario di trattamento sanzionatorio tra corruzione per l’esercizio della funzione e per un atto contrario ai doveri di ufficio. Ciò ha inevitabilmente inciso sull’interpretazione di tali fattispecie criminose, col susseguente pericolo di accentuare la prassi giurisprudenziale che vede disapplicato l’art. 318 rispetto al 319 c.p. al fine di ottenere una sanzione più grave. L’aumento del massimo edittale dell’art. 318 (da 5 a 6 anni di reclusione), inoltre, risulta ostativo all’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 131 bis, ovvero l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Allo stesso tempo, all’aumento della pena per il delitto di corruzione propria (da 4-8 anni di reclusione a 6-12 anni) corrisponde l’inasprimento delle pene stabilite per il delitto di corruzione in atti giudiziari (nella forma base e nella forma aggravata) ai sensi dell’art. 319 ter c.p., che ricorre quando i fatti descritti dagli artt. 318 e 319 sono commessi “per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo” o quando da suddetti fatti derivi l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione.
Più in generale, le novità apportate dalla riforma del 2015 in materia sanzionatoria tendono a realizzare due finalità ben precise, seppure perseguite in maniera tale da creare un forte squilibrio nell’ambito della tutela penale.
In primis, l’aumento dei minimi edittali aveva come obiettivo l’effettività della pena detentiva, rendendo difatti difficile l’applicazione della pena su richiesta delle parti con riguardo ai delitti di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e induzione indebita, nonché allontanando sempre più la possibilità di ottenere la sospensione condizionale della pena.
In secundis, l’aumento dei massimi edittali era stato previsto con l’intenzione di rendere più lunghi i termini di prescrizione del reato. In realtà già la giurisprudenza maggioritaria realizzava suddetta finalità ricorrendo all’escamotage del “duplice schema”, spostando cioè il momento della consumazione del reato ad un tempo successivo rispetto al suo perfezionamento. Se con la stipula dell’intesa illecita, difatti, il delitto di corruzione è perfezionato, è solo con la dazione dell’utilità che il reato è consumato, decorrendo da questo momento il termine di prescrizione. Così, in caso di pagamento frazionato, il momento consumativo è nell’ultimo pagamento oggetto di accertamento processuale.
In una logica premiale, poi, il legislatore ha introdotto una nuova circostanza attenuante ad effetto speciale comportante la riduzione della pena da un terzo a due terzi con riguardo ai delitti previsti dagli art. 318, 319, 319 quater, 320, 321, 322 e 322 bis c.p. “per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite” (art. 323 bis co. 2 c.p.).
Neppure le pene accessorie si sottraggono all’opera di rafforzamento della tutela penale operato dal legislatore del 2015. Un esempio ne è l’innalzamento da tre a cinque anni della durata massima dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 32 ter c.p.
Ad ogni modo, il delitto di corruzione può assume nella prassi peculiari atteggiamenti. Sovente, infatti, si sente parlare di “corruzione ambientale” o “endemica”, riferendosi in tal modo ad una situazione in cui, all’interno di un certo apparato amministrativo, la corruzione si presenta come un vero e proprio modus operandi dell’agire amministrativo piuttosto che come atto singolo in un sistema ben funzionante. Famoso è, per esempio, lo scandalo di Tangentopoli che ha interessato gli anni ’90.
Diversa è l’ipotesi di corruzione tra privati disciplinata dall’art. 2635 c.c. che punisce “gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società” e chi promette, offre o dà loro denaro o altra utilità, salvo che il fatto non costituisca più grave reato.