A cura di: Angelo D’Onofrio
- SOCIETA’ PUBBLICA NELL’ACCEZIONE LEGISLATIVA
In linea di premessa con la presente governance trattazione appare necessario chiarire il significato di una espressione poco perspicua: quella di “società pubblica”. A tal d’uopo è prudente limitarsi alla definizione che il legislatore ha di recente fornito all’art.2 del D.lgs. n.175 del 2016 – Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica – districando il groviglio di definizioni date da dottrina e giurisprudenza. Ai sensi del presente articolo la locuzione “società pubblica” deve essere tripartita in: società a controllo pubblico, società a partecipazione pubblica, società in house. Le società si definiscono a controllo pubblico quando le pubbliche amministrazioni esercitano i poteri ex art. 2359 c.c[1]. ovvero allorquando, per statuto o per legge o a causa di patti parasociali, è richiesto il consenso della parte o delle parti pubbliche controllanti per l’approvazione delle decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale (combinato disposto dell’art.2 lett. b) e m) D. lgs. supra cit.). Le società a partecipazione pubblica sono, invero, parzialmente coincidenti con la precedente categoria tant’è che la definizione adoperato dal Legislatore è in parte ridondante: “[le società a partecipazione pubblica sono quelle] a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico”.
Per sottrazione ne inferisce che l’elemento discriminante tra le due categorie suddette potrebbe essere il requisito del controllo: infatti nelle società a partecipazione pubblica, pur essendovi una partecipazione diretta o indiretta delle pubbliche amministrazioni al capitale sociale, non è richiesto che tale partecipazione assurga a potere di controllo. Da ultimo, ma senz’altro non per importanza, le note società in house cui le pubbliche amministrazioni locali sono avvezza a ricorrere. A tal riguardo, per potersi configurare tale modello, sono necessarie e sufficienti tre condizioni:
1. Il controllo analogo esercitato da uno o più amministrazioni; 2. le partecipazioni di privati al capitale sociale entro stringenti limiti; 3. Un’attività prevalentemente destinata all’ente o gli enti controllanti. Nel modello in house, dunque, s’è davanti ad una società formalmente privatistica ma sostanzialmente pubblica che solo da un punto di vista soggettivo differisce dalle pubbliche amministrazioni controllanti. Questo rilievo è nodale perché permette di distinguere bene le società in house da quelle solo controllate e/o partecipate da enti pubblici. Invero le prime si fondano sul controllo analogo (dove il termine analogo è da intendersi come identico a quel peculiare potere di controllo che l’ente pubblico esercita sui propri uffici), che è cosa ben diversa dal controllo ex art. 2359 c.c. Ciò vale sia per intensità, essendo più invadente il controllo analogo, sia per le modalità d’esercizio del controllo, non risolvendosi quest’ultimo, nelle società in house, nei diritti e nelle facoltà che il codice attribuisce al socio di controllo o addirittura al socio unico[2].
- LE GOVERNANCE PREVISTE NEL NOSTRO ORDINAMENTO
Non avendo alcuna pretesa di esaustività e, quindi, riservando a trattazioni più specifiche lo sviluppo del tema, pare logico discettare dei tre modelli di governance contemplati dal nostro ordinamento. Nel rinvigorire il principio dell’autonomia statutaria con le recenti riforme[3], il Legislatore ha concesso la possibilità ai soci di conferire un’“architettura” diversa da quella ordinaria al sistema di controllo e di gestione, introducendo il modello dualistico e monistico.
Il sistema tradizionale è un modello triadico che si fonda su una distinzione di ruoli da ripartirsi tra l’assemblea, composta dai soci, cui spettano le decisioni più importanti per la società, l’organo amministrativo (collegiale o monocratico) che si premura della gestione ordinaria nonché dispone della rappresentanza all’esterno della compagine societaria ed il collegio sindacale con funzioni di controllo sull’amministrazione. Il sistema tradizionale è l’opzione normativa principale, richiedendo l’art. 2380 c.c. che la scelta di modelli alternativi sia dichiarata statutariamente expressis verbis.
Nel sistema dualistico le funzioni di controllo ed amministrazione sono rimesse rispettivamente ad un consiglio di sorveglianza e ad un consiglio di gestione. Il primo è il diaframma tra l’assemblea dei soci ed il consiglio di gestione in quanto, da un lato, esercita poteri di indirizzo inusitati rispetto al modello tradizionale, dall’altro, svolge un controllo sull’amministrazione che lo asserva all’assemblea dei soci. Viene eletto da questi ultimi ed è composto da un minimo di tre componenti che esercitano le loro attribuzioni, di regola, collegialmente. Il Consiglio di sorveglianza nomina il consiglio di gestione e, per questo, può disporre la revoca dei suoi membri ad libitum, fatta salva la tutela risarcitoria. Una postilla doverosa su tale modello riguarda l’approvazione del bilancio che, salvo non venga disposto diversamente, spetta al controllo di sorveglianza, fermo restando che è l’assemblea a deliberare circa la destinazione degli utili.
Nel sistema monistico, di matrice anglosassone, v’è un unico organo collegiale che conosce al suo interno di una biforcazione, dovendo svolgere tanto una funzione gestionale che di controllo. Infatti l’assemblea dei soci nomina il consiglio di amministrazione che, a sua volta, nomina internamente un comitato per il controllo sulla gestione che ha l’obbligo di sanzionare le mancanze degli amministratori. Pur essendo previsto che i membri del comitato di controllo non possano prendere parte all’attività gestionale della società, permane più di un dubbio sul grado di indipendenza tra controllanti e controllati in questo sistema.
- I MODELLI GESTIONALI NELLE SOCIETA’ PUBBLICHE
I tempi sono maturi per tirare le fila del presente discorso sviluppando gli spunti e le premesse introdotti nei paragrafi precedenti.
Com’è noto, gli enti pubblici locali oggigiorno sono inclini ad esternalizzare i servizi pubblici di loro pertinenza affidandoli a società private partecipate da enti pubblici (sul punto si veda supra) ovvero a dar vita a società assoggettate al loro controllo analogo. Peregrina è, invece, l’ipotesi di lasciare alle imprese private ed al libero svolgimento del mercato la produzione di tali servizi, ed è questo che ha indotto la dottrina a parlare di una liberalizzazione ‘temperata’ per i servizi pubblici locali[4]. Con il D.lgs. 175/2016 il Legislatore ha previsto che le amministrazioni pubbliche possano partecipare solo a società costituite nella forma di s.p.a. o s.r.l. ovvero che gli enti pubblici possano costituire società pubbliche sottoposte ad un vincolo di scopo pubblico e ad un vincolo di attività. Il primo consistendo nell’oggetto sociale che deve essere limitato alla produzione di beni e sevizi necessari e compatibili con le finalità istituzionali dell’ente fondatore, mentre il secondo riguarda il tipo di attività concretamente svolta dalla società che deve rientrare nell’elencazione tassativa fornita dall’art. 4 co.2 D.lgd.175/2016. Ciò posto, sotto il profilo della governance è da distinguere il caso della società pubblica partecipata/controllata dalla società in house. Nella prima ipotesi, invero, sono adoperabili tutti e tre i modelli prima esposti ed a tal riguardo si impone solo un’osservazione empirica ed una valutazione tecnica; nelle società partecipate/controllate il modello più ricorrente è quello tradizionale con la conseguenza di nominare nel consiglio d’amministrazione degli esponenti degli enti pubblici locali partecipanti/controllanti che, spesso, non posseggono la dovuta esperienza e competenza tecnica dal punto di vista gestionale. Quanto detto porta alla valutazione tecnica, che potrebbe rappresentare il correttivo di questa prassi deviante, ossia: prediligere la governance dualistica. Difatti con questo modello sarebbe possibile soddisfare sia l’esigenza di nomina di persone di fiducia politica (da parte degli enti locali, in special modo i Comuni) nel consiglio di sorveglianza, con la possibilità di nominare anche “terzi” non soci, sia l’esigenza di corroborare la competenza tecnica degli amministratori in quanto ciò viene assicurato dalla nomina diretta di costoro da un gruppo ristretto di persone (il consiglio di sorveglianza) che meglio potrà valutarne la professionalità ed il merito.
Per quanto concerne, viceversa, le società in house, e per quanto detto prima dovrebbe risultar chiaro, è difficile ricondurre tale assetto allo schema societario regolato dal codice civile. Ciò non tanto da un punto di vista formale, tenuto conto che le società in house sono s.p.a o s.r.l. che si conformano ad uno dei tre modelli di governance anzidetti, bensì da un punto di vista sostanziale, in quanto la realtà societaria in parola presenta sovente degli elementi di ‘alienità’rispetto ai sistemi positivizzati. In altre parole, negli statuti delle s.p.a. in house sono previste delle clausole derogatorie rispetto alle norme ordinarie che attribuiscono la direzione dell’impresa al consiglio di amministrazione (sistema tradizionali e monistico) o al consiglio di gestione (sistema dualistico); nelle s.r.l. invece lo statuto può accordare agli enti controllanti dei particolari diritti afferenti l’amministrazione della società. Donde si può dire che il Legislatore ha voluto costituire un “sistema gestionale e di controllo societario”, nel modello in house, assai distante da quelli noti, poiché ha voluto dare preminenza agli interessi pubblici geriti da queste imprese accordando dei poteri agli enti pubblici che prescindono dalla loro partecipazione e/o dal controllo che essi rivestono nella compagine societaria[5].