A cura di Piera Di Guida
I reati contro la Pubblica Amministrazione sono stati interessati da una molteplicità di riforme soprattutto nel corso dell’ultimo trentennio, la maggior parte delle quali incentrate sul problema della corruzione, fulcro centrale di tutto il Titolo II del codice penale. L’obiettivo del legislatore era quello di riuscire a ricostruire in maniera più precisa l’area della rilevanza penale delle condotte dei pubblici ufficiali per cercare di fronteggiare il rischio di un eccessivo ingresso del controllo giudiziario oppure un surplus di pena rispetto a fatti non particolarmente rilevanti.
A partire dagli anni ’90, con la legge 26 aprile del 1990 n. 86, il legislatore avvia una profonda riscrittura dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Si tratta di una delle più importanti revisioni novellistiche della parte speciale del codice in quanto detta riforma investe un settore dove i diversi poteri dello Stato si incontrano e vengono in conflitto.
Si parte dalle norme definitorie – come la nozione di pubblico ufficiale ancorata non più al rapporto con la pubblica amministrazione ma al tipo di funzione svolto – per cercare di ribaltare completamente le articolazioni interne.
I principi cardine della riforma passano attraverso l’abolizione, almeno formale, di due fattispecie alquanto discusse ovverosia il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio; tali figure verranno poi riassorbite nell’unico nuovo reato di abuso d’ufficio, che da ipotesi residuale diviene fulcro della riforma. Tuttavia l’indeterminatezza che l’espressione “abusa del suo ufficio” racchiude non si presta a fronteggiare lo sconfinamento dell’azione giudiziaria che si cercava di fronteggiare, infatti la riforma non contribuisce a delineare la fattispecie in termini precisi, non contribuisce ad avvicinarsi alla logica dell’extrema ratio e dell’offensività.
Si procede poi con l’aggiunta di alcune figure criminose e la modifica del trattamento sanzionatorio di altre, ma ancor più il legislatore decide di configurare la corruzione in atti giudiziari come autonoma fattispecie incriminatrice, anziché circostanza aggravante, con l’obiettivo di “evitare, in considerazione della particolare gravità delle fattispecie regolate, che i sensibili aggravamenti di pena già oggi previsti possano essere vanificati dal gioco della comparazione delle circostanze”[1] ed inoltre si guarda ad altre legislazioni dove “la specifica figura della corruzione in atti giudiziari è oggetto di autonoma incriminazione”[2].
Tuttavia l’impianto tipico del codice resta inalterato, vengono confermate le ipotesi in materia di corruzione di cui agli artt. 318 e 319 c.p. con relative modifiche, nonché il rapporto normativo tra corruzione e concussione.
La riforma del ’90 non ha però l’impatto auspicato infatti nel 1993 esplode Tangentopoli, uno degli scandali più devastanti degli ultimi 25 anni che ha testimoniato l’inefficienza di quel sistema penale recentemente novellato.
Nel 1997 il legislatore “ritorna sui suoi passi” e riscrive radicalmente la fattispecie dell’abuso d’ufficio ricostruendo la norma nei termini che oggi conosciamo allineandola finalmente ai principi di extrema ratio, precisione, tassatività e determinatezza.
Ancora dopo, nel 2000, con la legge 29 settembre 2000, n. 300 il legislatore compie un passo significativo introducendo l’art 316 bis “Malversazione a danno dello stato” e allargando l’area delle norme incriminatrici in materia di corruzione ad un piano internazionale con l’art. 322 bis.
L’art 322 bis è una norma creata appositamente per quei fatti di corruzione (e non solo) contrassegnati dalla presenza attiva di un pubblico agente non italiano, e incrimina episodi di «peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri».[3] Lo scopo della norma era quello di garantire tutela alla pubblica amministrazione rispetto a forme di aggressione o captazione indebita altrimenti non incriminate penalmente.
Sempre con la stessa riforma viene introdotto l’art 322 ter, un’ipotesi speciale di confisca obbligatoria volta ad incidere sulle ragioni di profitto privato che motivano i reati di cui al Titolo II, cui si aggiunge anche una funzione punitiva.
Un ulteriore intervento rilevante in materia è il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231 che introduce per la prima volta la responsabilità penale delle persone giuridiche e in questa sede sono inseriti anche reati contro la pubblica amministrazione. L’obiettivo è quello di prevenire la commissione di reati da parte delle società invitandole a dotarsi di un modello di organizzazione e gestione in cui vengono stilate una serie di procedure che dovrebbero abbattere il rischio di commissione di reati. Le società sono così stimolate a dotarsi di modelli interni e di istituzioni di organi di vigilanza che presiedono al controllo di quei modelli.
La portata innovativa di questo intervento si rinviene nella strategia di carattere preventivo che si affaccia per la prima volta nel nostro sistema penale.
Con la legge 6 novembre 2012, n. 190 si arriva poi ad una riforma dei delitti in tema di corruzione, da anni attesa, che ha cercato di dare risposta all’esigenza, avvertita anche in sede applicativa, di una migliore e più netta distinzione tra «concussione» e «corruzione», valorizzando tra i beni offesi non solo quelli tradizionali del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, ma anche la libera concorrenza, nella consapevolezza di un preciso nesso tra corruzione e crescita economica.[4]
È la riforma più organica dopo quella del 1990, il legislatore decide di definire un binario parallelo che si muove in una prospettiva ex ante, di prevenzione del problema corruttivo, non più solo repressione penale ma sistemi di autocontrollo di carattere preventivo. Si preferisce un approccio multidisciplinare nel quale gli strumenti sanzionatori si configurano solamente come alcuni dei fattori per la lotta alla corruzione e all’illegalità nell’azione amministrativa.
Seguendo la stessa logica, viene istituita con la legge del 2012 un’autorità nazionale anticorruzione, ANAC, con lo scopo di fronteggiare il fenomeno corruttivo mediante l’attuazione della trasparenza in tutti gli aspetti gestionali, nonché mediante l’attività di vigilanza nell’ambito dei contratti pubblici, degli incarichi e comunque in ogni settore della pubblica amministrazione che potenzialmente possa sviluppare fenomeni corruttivi.
Accanto a questo tipo di scelta, nel 2015 – con la legge 27 maggio 2015, n. 69 – si introduce un terzo binario di tipo riparativo per stimolare l’emersione di fatti illeciti, incentivando le denunce di accordi corruttivi tramite sensibili sconti di pena per i collaboratori di giustizia e prevedendo una serie di disposizioni, sostanziali e processuali, rivolte al recupero coattivo delle utilitates indebitamente percepite dai pubblici agenti. Il fulcro della novella risiede in interventi sulle fattispecie più rilevanti come concussione, corruzione nonché sul delitto di associazione di stampo mafioso, tramite significativi inasprimenti di pena.
Ad oggi, il sistema di tutela e di contrasto della corruzione del nostro ordinamento si articola, dunque, su più piani e si presenta molto più strutturato di quello del passato con l’obiettivo di arginare e prevenire quanto più possibile il fenomeno corruttivo.
[1] Relazione al d.d.l. governativo n.2844 del 22 aprile 1985
[2] Relazione al d.d.l. Vassalli n.1250 del 15 marzo 1985
[3] S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, op. cit.
[4] S. CANESTRARI, L. CORNACCHIA, G. DE SIMONE, Manuale di diritto penale, parte speciale, Delitti contro la Pubblica Amministrazione, 2015, 143.