A cura di: dott.ssa Claudia Ercolini
Al fine di comprendere i tratti essenziali del reato di abuso d’ufficio occorre partire dalla disposizione normativa di riferimento.
L’art. 323 c.p. così recita: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.”
In premessa occorre affermare che Il reato di abuso d’ufficio è stato oggetto negli ultimi anni di due riforme legislative, la l. n. 86/1990 e la l. n. 234/1997, che ne hanno profondamente modificato l’assetto, “ridimensionando” l’astrattezza e la genericità della norma e ridefinendo la fattispecie criminosa entro più delimitati confini.
Ciò posto, per ciò concerne la struttura, il reato si configura come reato di evento: fondamentale pertanto è il verificarsi di uno dei due elementi costitutivi della fattispecie: il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto, tra i quali opera una relazione di alternatività.[1]
Proprio il delinearsi dell’uno o dell’altro evento risulta rilevante ai fini della individuazione del bene giuridico protetto dalla norma. Invero la giurisprudenza dominante ritiene che, in aggiunta al primario bene tutelato dalla norma, ovvero quello della imparzialità, trasparenza e buon andamento della PA ex art. 97 Cost, solo nel caso in cui si produca un danno ingiusto si può ritenere integrata la lesione dell’interesse del privato cittadino. Questo, pertanto, integrerà il ruolo di persona offesa dal reato poiché pregiudicato nei suoi diritti dal comportamento ingiusto del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio, determinando la conseguente natura plurioffensiva del reato. [2]
Peculiare è anche il soggetto attivo di tale reato: l’abuso d’ufficio, infatti, è reato proprio, appartenente alla fattispecie dei delitti contro la P.A., in quanto può essere commesso soltanto da un pubblico ufficiale, ovvero, a seguito della novella introdotta dalla l. n. 86/1990, da un incaricato di pubblico servizio. Non sarà necessaria al riguardo un’investitura formale, essendo sufficiente che il soggetto attivo eserciti, anche di fatto, pubbliche funzioni, con l’acquiescenza o il concorso della P.A.
Nel delitto in esame possono, tuttavia, concorrere anche i privati: sulla base dello schema tradizionale del concorso di persone nel reato, una volta dimostrata la responsabilità dell’”intraneus“, e, quindi, integrata la fattispecie delittuosa, può configurarsi il concorso nel reato del privato che sia destinatario dei benefici conseguenti all’atto abusivo, laddove lo stesso, tramite la sua condotta, abbia avuto un ruolo causalmente rilevante nella realizzazione del reato e sempre che fosse a conoscenza della qualità dell’intraneus.
Altro elemento di rilievo è dato dalla evidente natura residualedella fattispecie del reato di abuso d’ufficio: la norma, infatti, si apre con una clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”. Chiara è, quindi, la natura di reato subordinato rispetto alle ipotesi più significative di concussione e induzione indebita a dare o promettere utilità.
Passando al profilo della condotta, questa dovrà essere compiuta nello svolgimento delle funzioni o del servizio, come si evince dalla norma stessa. Tale “clausola” limitatrice della rilevanza penale della condotta, introdotta dal legislatore del 1997, implica che il soggetto attivo perpetri l’abuso nella veste di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che non è configurabile il delitto di cui all’art. 323 c.p. per tutti quei comportamenti posti in essere al di fuori dell’effettivo esercizio delle mansioni d’ufficio che, anche laddove perpetrati in violazione del dovere di correttezza, siano tenuti come soggetto privato senza servirsi in alcun modo dell’attività funzionale svolta, non assumendo pertanto rilievo penale, come affermato dalla Cassazione nel 2008.
Lineare, poi, è la portata della norma: la stessa richiede da un punto di vista oggettivo una “doppia ingiustizia” della condotta e dell’evento, rappresentata dalla violazione di legge o regolamento e dall’ ingiusto danno o vantaggio da essa generato. In particolare il vantaggio viene espressamente definito come patrimoniale e, secondo l’interpretazione giurisprudenziale recente[3], deve essere inteso come complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale: pertanto sussisterà non solo nel caso in cui l’abuso sia volto a procurare beni materiali, bensì, anche qualora sia volto a creare un “accrescimento della situazione giuridica soggettiva a favore di colui nel cui interesse l’atto è stato posto in essere”. Per ciò che concerne, invece, l’evento di danno, non si fa alcun riferimento al carattere patrimoniale, pertanto potrà dirsi integrato anche laddove vengano in gioco delle lesioni afferenti la sfera della personalità.
Il vantaggio e il danno devono essere INGIUSTI: ovvero non conformi al diritto, in quanto non spettanti sulla base del diritto oggettivo. Ad escludere l’ingiustizia non è dunque sufficiente che il destinatario della condotta abusiva sia titolare di una posizione giuridica astrattamente tutelabile, ma occorre che questa sia tale in concreto, avuto cioè riguardo alle condizioni normativamente previste, anche per l’ipotesi di concorso con la posizione di altri titolari di diritti analoghi.[4]
Nessun riferimento, quindi, viene fatto all’abuso di poteri e qualità, in virtù del più specifico requisito della violazione di legge e regolamento, sostitutivo della antecedente formulazione della norma che faceva riferimento, appunto, al requisito dell’abuso di poteri.
Tuttavia, la giurisprudenza, contrariamente all’intento del legislatore di rendere più stringenti i requisiti dell’abuso d’ufficio, fornisce una accezione ampia di violazione di legge e di regolamento, facendovi rientrare anche la violazione dei generali principi dettati per l’azione amministrativa, quali l’imparzialità e il buon andamento. La norma violata sarebbe, dunque, l’art. 97 della Cost., la cui portata non potrebbe risultare meramente programmatica, bensì immediatamente precettiva, poiché capace di imporre alla PA una vera e propria regola di condotta rappresentata dal divieto di porre in essere favoritismi e discriminazioni.[5]
La Suprema Corte, infatti, ricomprende nella illegittimità di cui all’art. 323 c.p. anche il vizio dell’eccesso di potere che si ritiene integrato laddove, nell’abito di una attività discrezionale della PA, l’atto, pur non essendo in contrasto con la norma di legge, venga adottato per perseguire una finalità diversa da quella tipica.
La disposizione normativa, poi, individua anche una seconda eventualità: quella della mancata astensione del pubblico ufficiale in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti: tale ipotesi viene ricompresa nella generale portata della norma, in quanto individua nient’altro che una specifica ipotesi di violazione di legge essendo l’obbligo di astensione normativamente previsto.
Da un punto di vista soggettivo si richiede, poi, il dolo intenzionale, come si evince dal tenore letterale dell’articolo, pertanto del tutto insufficiente ad integrare il reato sarà il dolo eventuale, ovvero l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento, e, secondo le più recenti pronunce,[6] anche il dolo diretto, cioè la rappresentazione dell’evento come realizzabile con elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, senza essere un obiettivo perseguito. In particolare la Suprema Corte [7] ha osservato come nel reato di abuso di ufficio debba ritenersi configurato il dolo intenzionale qualora si accerti che il pubblico ufficiale abbia agito con lo scopo immediato e finale di non perseguire, attraverso la condotta posta in essere, una finalità pubblica.
Di conseguenza, quando l’evento tipico sia una semplice conseguenza accessoria dell’operato dell’agente, il quale persegue in via primaria l’obiettivo dell’interesse pubblico di preminente rilievo, riconosciuto dall’ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo o danno per il privato, si può ritenere che l’evento sia voluto ma stia occupando, come è stato sottolineato in dottrina, una posizione defilata.
[1] GALLI R., (2017). Nuovo corso di diritto penale. Cedam, Italia, Milano.
[2] Corte di Cassazione, sentenza n.17642/2008
[3] Corte di Cassazione, sentenza n.38738/2015
[4] Corte di Cassazione, sentenza n.36125/2014
[5] GALLI R., (2017). Nuovo corso di diritto penale. Cedam, Italia, Milano.
[6] Corte Costituzionale, sentenza n.250 del 2006
[7] Cassazione Penale, sentenza n. 10810/2014