A cura di Daniele D’Antonio
La disciplina penale della corruzione nei rapporti tra privati è stata recentemente oggetto di riforma da parte del legislatore nazionale. Per comprendere l’effettiva portata applicativa delle vigenti disposizioni in materia, giova in primo luogo illustrarne il contenuto, soffermandosi sui più rilevanti profili differenziali rispetto alla normativa previgente, per poi formulare brevi osservazioni sugli aspetti maggiormente significativi delle stesse, segnalandone eventuali possibili criticità.
Quanto alla disciplina attuale, al fine di predisporre uno statuto penale sanzionatorio che risultasse in linea con le indicazioni europee, il governo, nell’esercizio della funzione legislativa delegatagli[1] dal Parlamento con l’art. 19 della cd. legge di delegazione europea 2015 (l. 12 agosto 2016, n. 170), ha emanato il decreto legislativo 15 marzo 2017, n. 38, recante “Attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato”.
Tale atto, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 marzo 2017 n. 75 ed entrato in vigore il 14 aprile 2017, presenta un contenuto piuttosto snello, componendosi di soli 7 articoli.
L’art. 1 chiarisce l’oggetto dell’intervento legislativo, disponendo che il decreto provvede ad attuare nell’ordinamento italiano le disposizioni previste dalla citata decisione quadro europea per contrastare il fenomeno corruttivo nell’ambito privatistico[2].
Gli articoli da 2 a 5 incidono direttamente sul corpus normativo del codice civile, da un lato modificando disposizioni previgenti e dall’altro introducendo fattispecie ex novo, secondo le seguenti specificazioni.
L’ art. 2 modifica la rubrica del titolo XI, libro V del codice civile, aggiungendo alla precedente formulazione testuale le parole “e di altri enti privati”[3]. Tale innesto, sintomatico dell’estensione del perimetro applicativo della normativa emendata dal decreto, offre una preliminare indicazione circa la configurabilità dei reati di corruzione tra privati e istigazione alla corruzione tra privati nei confronti di esponenti non più solo di società commerciali, ma anche di enti privati non societari.
In particolare, il dato letterale induce a ritenere che siano richiamati sia gli enti privati collettivi con personalità giuridica[4] che quelli privi della stessa: in questo senso, se risulta pacifica l’inclusione di sindacati e partiti politici[5], enti no profit e fondazioni (ad es. bancarie o gerenti strutture ospedaliere private convenzionate), discussa è invece quella degli organi di giustizia arbitrale e dei soggetti che li assistono (ad es. consulenti tecnici)[6].
L’art. 3 interviene sul reato di cui all’art. 2635 c.c., rubricato “Corruzione tra privati”, modificandone: con la lettera a), il comma 1; con la lettera b), il comma 3; con la lettera c), il comma 6. Per analizzare il novellato testo dell’articolo codicistico[7], è utile procedere per commi.
I commi 1 e 2 dell’art. 2635 c.c. disciplinano la corruzione passiva tra privati.
Per ciò che attiene al fatto incriminato, attesa l’impossibilità di applicare le disposizioni de quibus se risulta integrato un reato più grave in forza della clausola di salvaguardia[8] ivi prevista, il nuovo comma 1 contempla una pluralità di condotte punibili con l’immutata reclusione da uno a tre anni.
In sintesi, è sanzionata la sollecitazione/ricezione, anche indiretta[9], di indebite utilità[10] per sé o per altri, ovvero l’accettazione, anche indiretta, della promessa[11] di indebite utilità, al fine specifico di realizzare una azione/omissione che viola gli obblighi d’ufficio dell’agente/di fedeltà.
Ciò evidenzia immediatamente due dati, uno relativo allo schema corruttivo sotteso alle disposizioni in parola, l’altro attinente al “ruolo” che riveste il comportamento contrario agli obblighi qualificati dalla norma ai fini dell’integrazione del reato. Da un lato, emerge la riferibilità delle condotte criminalizzate al paradigma della corruzione passiva cd. propria antecedente, di evidente derivazione pubblicistica (art. 319 c.p.), in cui il soggetto attivo corrotto consegue l’indebito vantaggio o ne accetta la promessa prima di porre in essere l’azione contraria ai doveri d’ufficio/di fedeltà. Rispetto alla norma dettata per la corrispondente condotta del pubblico ufficiale, tuttavia, non risulta criminalizzata dall’art. 2635 c.c. la corruzione passiva propria susseguente, in cui il comportamento antidoveroso precede temporalmente il conseguimento dell’indebito vantaggio o l’accettazione della sua promessa. Come pure, al di fuori dall’area della punibilità della norma, sta tutta la corruzione passiva impropria, attinente alla ricezione di utilità non dovute in cambio del compimento di un atto del proprio ufficio.
Dall’altro, ai fini dell’integrazione dell’elemento tipico oggettivo della fattispecie, è assolutamente irrilevante l’avvenuta (successiva) esecuzione o meno, da parte del soggetto attivo del reato di corruzione passiva[12], del comportamento antidoveroso. Quest’ultimo, infatti, nella struttura del reato in esame, costituisce esclusivamente l’oggetto del dolo specifico e non rappresenta (più), come nella formulazione previgente, un elemento costitutivo del fatto tipico. Per la sussistenza del delitto, dunque, è sufficiente che le condotte incriminate siano teleologicamente orientate ad ottenere il risultato contrario agli obblighi qualificati dalla norma; a tale orientamento soggettivo, però, in virtù della lettura del presente comma 1 in combinato disposto con l’introdotto art. 2635-bis c.c.[13], deve accompagnarsi altresì l’avvenuta stipulazione dell’accordo corruttivo.
Le circostanze esposte, unitamente all’evidente eliminazione dalla previgente formulazione della norma del riferimento al (necessario) nocumento alla società eziologicamente ricollegabile al comportamento prezzolato (posto in essere), contribuiscono a determinare la trasformazione del delitto in questione da reato di evento e di danno in reato di mera condotta e di pericolo[14].
Sempre dall’espunzione del nocumento, inoltre, si ricava l’intenzione del legislatore di modificare il bene giuridico oggetto di presidio penale: non più il patrimonio sociale della società commerciale, ma interessi generali della collettività, quali, coerentemente con le prescrizioni della decisione quadro 2003/568/GAI dichiaratamente attuata dal d. lgs. 38/2017, l’affidamento dei terzi nella trasparenza e nel buon funzionamento del mercato economico e la salvaguardia delle regole concorrenziali e della competitività delle imprese[15].
Quanto agli obblighi inerenti al relativo ufficio dell’agente ovvero di fedeltà, la determinazione degli stessi richiede uno sforzo ermeneutico. Invero, se i primi risultano tutto sommato concretamente individuabili per relationem guardando alla normativa disciplinante l’ufficio relativo dell’agente, lo stesso non può dirsi per i secondi. Sembra davvero difficile identificare compiutamente, all’interno del comma 1, l’ubi consistam e l’ampiezza dei “generici e nebulosi obblighi di fedeltà, [effettivamente] più congeniali alla prospettiva di tutela civilistica”[16].
Passando al novero dei soggetti attivi del reato di cui ai commi 1 e 2, per effetto della sopravvenienza normativa si verifica un notevole ampliamento.
In primo luogo, richiamando quanto già esposto a proposito dell’art. 3 del decreto (anche al fine di superare l’apparente deficit di tassatività penale in parte qua[17]), tra i potenziali autori del delitto disciplinato rientrano non più soltanto gli esponenti di società commerciali, ma anche quelli di enti privati non societari, aventi o meno personalità giuridica.
In secondo luogo, e più precisamente, il nuovo comma 1 affianca ai componenti di vertice degli organi di amministrazione e controllo (id est amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci, liquidatori), nel ruolo di possibile intraneus, la nuova figura dell’esercente funzioni direttive diverse da quelle proprie dei medesimi (dunque non un apicale) nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato.
nvero, tale fraseggio linguistico non rende “di immediata comprensione a quali soggetti la norma voglia riferirsi”[18], identificando ictu oculi un elemento cd. elastico della fattispecie. Quest’ultimo, in quanto tale, si trova ontologicamente in tensione col principio generale di tassatività e sufficiente determinatezza nella descrizione del fatto penalmente tipico, necessitando di essere “riempito di contenuto” in via interpretativa[19].
La disposizione sembra riguardare quei soggetti che, esercitando una qualsivoglia funzione direttiva di gestione o di controllo, prestano attività lavorativa all’interno dei modelli organizzativi dell’ente privato, senza tuttavia possedere poteri esterni di rappresentanza o direzione. Sicchè, essendo tali anche gli impiegati con poteri direttivi o di coordinamento piuttosto modesti, magari relativi ad una sola risorsa inserita nei rispettivi uffici, si verifica l’equiparazione normativa quoad penam di soggetti che occupano posizioni sensibilmente distanti, le une dalle altre, all’interno della piramide organizzativa dell’ente privato. Ciò, tuttavia, si spiega in virtù della scelta, operata dalla norma, di: imperniare il disvalore penale sul pactum sceleris, a prescindere da chi lo stipuli, come meglio specificato in seguito; degradare il reato precedentemente di danno a mero delitto di pericolo.
Peraltro, è stato correttamente osservato che, anche dopo l’intervento del d. lgs. 38/2017, l’adeguamento dell’ordinamento italiano alla decisione quadro 2003/568/GAI rimane parziale, poiché l’art. 2, par. 1, lett. a) della stessa[20] dà rilievo allo svolgimento “di funzioni lavorative “di qualsiasi tipo” (quindi anche non dirigenziali-direttive) per conto dell’ente privato”[21]. Fuori dal perimetro applicativo della norma interna in parte qua, contrariamente all’espressa volontà europea, restano quindi i semplici “dipendenti o collaboratori, direttamente o indirettamente sottoposti, in via legale o contrattuale, ai poteri di direzione o vigilanza”[22] dei citati componenti di vertice.
Come detto innanzi, poi, alla modalità diretta di commissione del reato di cui al novellato comma 1 è stata aggiunta quella indiretta per il tramite di “interposta persona”.
Quest’ultima variazione appare, quantomeno astrattamente, idonea a determinare interferenze applicative tra la disposizione in argomento e l’attenuante di cui all’immutato comma 2, che tempera la pena prevista per colui che, sottoposto ai poteri di direzione o vigilanza dei soggetti predetti, delinque ai sensi del (mutato) comma 1.
Infatti, come pocanzi evidenziato, il fatto tipico a cui la fattispecie attenuata continua a rinviare è cambiato. Le figure del “sottoposto” effettivamente corruttibile, allora, e dell'”interposto” – che è mero negoziatore, per l’apicale “occulto”, di affare corruttivo arrecante indebito vantaggio a quest’ultimo o a terzi – potrebbero sovrapporsi, qualora pure il secondo risultasse in qualche modo soggetto ai poteri succitati, anche in considerazione della mutevole fisionomia dei singoli casi di specie. Difficoltà di qualificazione del soggetto intervenuto nelle negoziazioni corruttive in un senso o nell’altro vi sarebbero, altresì, in presenza di incertezze probatorie circa l’effettivo rivestimento, da parte di un componente apicale degli organi di amministrazione e controllo, del ruolo di “mandante” del delitto.
Il nuovo comma 3 dell’art. 2635 c.c. continua ad essere dedicato alla corruzione attiva. La disposizione, nel criminalizzare con le stesse pene di cui al comma 1 la promessa o la dazione, di denaro o altra utilità (oggi non dovuti), effettuata dal corruttore extraneus, punisce dopo la riforma anche l’offerta avente il medesimo oggetto.
L’ampliamento delle condotte penalmente rilevanti non altera la perdurante riferibilità della norma al modello della corruzione attiva propria antecedente e concomitante[23]. Il presidio penale in parola, quindi, non si spinge ancora fino alla corruzione attiva propria susseguente, né alla corruzione attiva impropria[24].
Anche qui, inoltre, viene introdotta la possibilità di porre in essere di una delle tre condotte stigmatizzate indirettamente, anche cioè per interposta persona. Tale apprezzabile scelta legislativa dota di intima coerenza il sistema sanzionatorio risultante nel complesso, non ravvisandosi diverso disvalore penale nel caso in cui il soggetto interposto negozi l’affare corruttivo per conto dell’intraneus ovvero per conto dell’extraneus.
Inoltre, la promessa, l’offerta o la dazione, per espressa previsione normativa, possono essere rivolte a tutte le figure disciplinate dai precedenti commi 1 e 2: ciò significa, all’interno dell’ente privato, sia ai predetti apicali, sia a chi esercita funzioni direttive diverse dalle loro, sia ai soggetti sottoposti alla direzione e vigilanza delle prime due categorie.
La scelta legislativa di non replicare in tale disposizione, in analogia alla formulazione testuale del comma 1, un esplicito riferimento ai terzi quali destinatari dell’indebito vantaggio desta qualche perplessità.
Come detto, infatti, il rinvio ai commi precedenti operato dalla norma sembra effettuato esclusivamente ai fini dell’individuazione dell’effettiva controparte dell’accordo corruttivo, attesa la chiarezza del dato letterale sul punto; inoltre, il comma in esame, al pari del comma 1, tratta espressamente delle indebite utilità, senza tuttavia similmente prevedere, in tal frangente, l’analoga specificazione della possibile riferibilità delle stesse, oltre che all’intraneus, a terzi. Apparentemente, dunque, per il corruttore, la stessa condotta è rilevante penalmente, quando contribuisce ad attribuire una utilità al corrotto, e non integra il reato in esame, se invece il vantaggio contrattato attiene a terzi.
Il paventato impasse, in realtà, pare potersi risolvere attraverso una valorizzazione del rinvio citato. Se è punito chi offre, promette o dà vantaggi indebiti ai soggetti di cui ai commi 1 e 2, e costoro li sollecitano/ricevono o ne accettano la promessa anche a favore di terzi per espressa previsione normativa, deve ritenersi irrilevante, per la punibilità del corruttore, la riferibilità agli uni o agli altri del vantaggio, riguardando tale profilo la sola condotta del corrotto. Ad ogni modo, sarebbe stata auspicabile una diversa articolazione normativa sul punto.
Al comma 4 dell’art. 2635 c.c., resta intatto il previgente raddoppiamento della misura sanzionatoria dettato, per i delitti precedentemente esposti, qualora essi coinvolgano società quotate o con titoli diffusi in misura rilevante tra il pubblico ex art. 116 TUF. E’ evidente, in questa ipotesi, il maggior disvalore ravvisabile nella condotta, che è idonea a porre gli stessi interessi generali precedentemente individuati in maggior pericolo, poiché i danni “a catena” che potrebbero verificarsi, qualora il fenomeno corruttivo attecchisse nelle società quotate, sarebbero sicuramente più ingenti rispetto a quelli immaginabili per gli altri enti privati.
L’immutato comma 5 dell’art. 2635 c.c. contiene poi indicazioni sul regime di procedibilità dei reati predetti. Esso continua a prevedere la necessità di querela della persona offesa, salva la derivazione dal fatto di una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.
Questa disposizione, apparentemente trascurabile, crea in realtà non pochi problemi per l’effettiva repressione penale del fenomeno corruttivo nel settore privato. Una simile impostazione, infatti, se appariva ragionevole quando la costruzione normativa incentrava il disvalore penale sul danno arrecato alla società commerciale quale persona offesa dal reato, a fronte della mutata natura di pericolo del delitto riformato diviene incoerente rispetto alla dichiarata scelta di protezione dei succitati interessi generali.
In primo luogo, non è assolutamente chiaro chi sia, nella formulazione attuale dell’art. 2635 c.c., la persona offesa dal reato legittimata a proporre querela.
Come detto, i beni giuridici direttamente protetti dalla norma sono l’affidamento dei terzi nella trasparenza e buon funzionamento del mercato economico e la salvaguardia delle regole concorrenziali e della competitività delle imprese. In quanto interessi generali, né è titolare la collettività indistinta: ciò significa tutti e nessuno al contempo, perché ogni posizione giuridica soggettiva, per essere tale e dunque potenzialmente tutelata dalle norme, deve essersi in qualche modo “soggettivizzata” e differenziata da quella del cd. quisque de populo, propria della generalità dei consociati.
Quanto alla possibilità di qualificare come persona offesa l’ente privato dell’intraneus, se il nocumento di tale ente è divenuto soltanto eventuale, e comunque irrilevante ai fini dell’integrazione del delitto in parola, la tutela penale del patrimonio “sociale” può realizzarsi soltanto mediatamente e non coincide più con l’oggettività giuridica presidiata dalla norma. E’ dunque possibile che l’ente privato “corrotto” (cioè il danneggiato dal reato) non sia anche persona offesa dal reato; che quindi, pur potendo costituirsi parte civile nel processo penale, esso non sia legittimato a proporre querela per il reato in esame.
Un simile problema è stato affrontato dalla dottrina di diritto amministrativo, con riferimento alla giustiziabilità dei cd. interessi collettivi vantati dall’ente esponenziale di rappresentanza di categorie di privati. E’ oggi opinione condivisa che tali interessi, in quanto sintesi e non mera sommatoria degli interessi diffusi in capo ai membri dell’ente -generali, adespoti e dunque non tutelabili in giudizio- , costituiscano il prodotto di un processo di soggettivizzazione e differenziazione, che li rende giuridicamente distinguibili dalla posizione del singolo membro dell’associazione di categoria e, dunque, suscettibili di essere inquadrati nel genus degli interessi legittimi azionabili davanti al giudice.
Seguendo tale lettura, allora, si può affermare che gli interessi generali-diffusi dei terzi (collettività) acquisiscano carattere di afferrabilità giuridica nella sintesi che degli stessi rappresenta l’interesse collettivo proprio dell’AGCM, authority nazionale istituzionalmente preposta alla vigilanza sul rispetto delle regole della concorrenza, che è interesse alla trasparenza e buon funzionamento del mercato concorrenziale. Del pari, in tale prospettiva, appaiono legittimate a proporre querela anche le associazioni rappresentative dei consumatori, ovvero degli imprenditori/delle imprese operanti nello specifico settore economico di appartenenza degli enti privati coinvolti nel fenomeno corruttivo.
E’ chiaro che ritenere che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e le predette associazioni di categoria siano le persone offese legittimate a proporre querela nel reato di corruzione tra privati ex art. 2635 c.c. apre enormi scenari di potenziale ineffettività del presidio penale in parola. Ed infatti è questo uno dei principali limiti della normativa in commento.
D’altra parte, letture estensive alternative del concetto di persona offesa ai fini della procedibilità nella presente cornice penale, le quali potrebbero condurre alle società competitor di quelle coinvolte nell’accordo corruttivo ovvero agli enti privati di extraneus e intraneus, paiono non tenere in debito conto la distinzione fondamentale, tra persona offesa dal reato e danneggiato dal reato, insita nel nostro sistema penalistico, in quanto tale insuperabile – oltre che normativamente prevista[25] – in via interpretativa.
Né appare risolutivo, sul punto, il riferimento normativo alla procedibilità d’ufficio nel caso di derivazione di una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi dal fatto tipico del reato.
Tale clausola derogatoria della regola di procedibilità a querela di parte, difatti, non chiarisce cosa debba intendersi per “distorsione”, nulla specificando in ordine alla misura che l’effetto distorsivo sulla concorrenza debba avere al fine di consentire al P.M. di superare la necessità della querela di parte. Non persuade, peraltro, la tesi che ricostruisce la distorsione concorrenziale in termini di pericolo astratto di alterazione delle regole concorrenziali[26]: quest’ultimo, così, arriverebbe ad essere praticamente ravvisabile in (quasi) tutti i casi, in evidente contrasto con l’opinione del legislatore, il quale, continuando a costruire la norma riservando alla procedibilità a querela il ruolo di regola, mostra di partire dal presupposto che il pericolo distorsivo non sussista in un numero quantomeno rilevante di casi.
In particolare, manca qualsiasi accenno descrittivo alla dimensione macroeconomica, che rimanda a conseguenze di significatività tale da essere in grado di riverberarsi sull’economia nazionale e comunitaria, ovvero microeconomica della distorsione, che involge gli interessi particolari facenti capo a singoli imprenditori concorrenti nonché ai consumatori[27]. Il difficile riscontro probatorio ontologicamente connesso alla prima dovrebbe condurre, in ogni caso, a prediligere la seconda per assicurare la verificabilità empirica del fenomeno e, quindi, la costituzionalità della disposizione de qua[28].
Mantenendo l’attuale regime di procedibilità, insomma, il legislatore pare realizzare una vera e propria eterogenesi dei fini, perché dichiara espressamente nel d. lgs. 38/2017 di attuare la decisione quadro 2003/568/GAI con le analizzate innovazioni di diritto sostanziale, senza però renderle effettivamente operative ed idonee allo scopo sul piano processuale, nel quale permane il regime in precedenza approntato per tutelare il patrimonio sociale delle società commerciali.
Infine, nel nuovo comma 6 dell’art. 2635 c.c. è stato aggiunto esclusivamente il riferimento all’offerta dal decreto in discussione, così da realizzare un’impostazione normativa globalmente coerente. Ai sensi del medesimo, ferma l’applicabilità della disciplina contenuta all’art. 2641 c.c. sulla confisca per equivalente, non è possibile applicare tale misura per un valore inferiore rispetto a quello delle utilità coinvolte nel fenomeno corruttivo.
Proseguendo con l’analisi del d. lgs. 38/2017, l’art. 4 ha introdotto la nuova fattispecie della “Istigazione alla corruzione tra privati”, di cui al nuovo art. 2635-bis c.c.[29].
Sulla falsa riga del modello pubblicistico di cui all’art. 322 commi 2 e 4 c.p., sono presi in considerazione dalla norma ambo i versanti, attivo e passivo.
Il comma 1, similmente all’ipotesi di cui al comma 3 del precedente art. 2635 c.c., punisce l’offerta o la promessa (non anche la dazione) di indebita utilità da parte dell’extraneus, finalizzate ad ottenere in cambio il comportamento successivo, da parte dell’intraneus (rectius degli stessi soggetti di cui al solo comma 1 dell’art. 2635 c.c.) dell’ente privato, contrario ai doveri del suo ufficio o di fedeltà, quando esse non siano state accettate dal “corrotto”. Non essendosi qui perfezionato l’accordo corruttivo, il legislatore ha inteso retribuire con una pena inferiore i soggetti coinvolti – diminuzione di un terzo alla pena di cui all’art. 2635 comma 1 c.c..
Appare francamente inspiegabile il mancato riferimento, anche in questa fattispecie penale, all’indiretta commissione per interposta persona. Essendo tale modalità di posizione in essere della condotta espressamente prevista anche per il versante passivo di cui al successivo comma 2, pare ragionevole ritenere che ciò costituisca solo il frutto di un difetto di coordinamento legislativo. La lacuna, tuttavia, sussiste innegabilmente e non sembrano esserci particolari margini per colmarla in via ermeneutica.
Come pure poco comprensibile appare la mancata inclusione normativa, tra i soggetti destinatari della promessa o dell’offerta non accettata, dei sottoposti alla direzione o alla vigilanza di chi esercita poteri direttivi nell’ente privato (art. 2635 comma 2 c.c.), atteso che il disvalore della (stessa) condotta dell’extraneus resta il medesimo, a prescindere dal soggetto nei confronti del quale sia stata formulata la promessa/offerta non andata a buon fine.
Da tali ultimi rilievi, sembra emergere, già in punto di diritto sostanziale, un irragionevole ed ingiustificato spazio di impunità per il corruttore, poiché non integra il delitto in esame l’offerta o la promessa non accettata che sia stata avanzata per il tramite di interposta persona, ovvero direttamente a soggetto sprovvisto di qualsivoglia poteri direttivi nell’ente privato.
Il successivo comma 2, poi, similmente al comma 1 dell’art. 2635 c.c., stigmatizza la condotta degli intranei (rectius degli apicali di direzione, gestione o controllo e degli esercenti qualsivoglia funzioni direttive all’interno dell’ente privato) che sollecitano, anche per interposta persona, la dazione (e qui anche la promessa) di un indebito vantaggio per sé o per altri, al fine di porre in essere un comportamento contrario ai doveri del proprio ufficio/di fedeltà, qualora la sollecitazione non sia stata accettata dall’extraneus. Anche qui, quindi, l’accordo corruttivo non si perfeziona e ciò determina l’applicazione della minor pena di cui al predetto comma 1 (diminuzione di un terzo rispetto alla reclusione da uno a tre anni).
In tale fattispecie, contrariamente a quanto detto pocanzi, il mancato novero delle persone sottoposte alla direzione o vigilanza di chi esercita poteri direttivi nell’ente privato (art. 2635 comma 2 c.c.) tra i soggetti attivi del reato può spiegarsi, alla luce della minore libertà d’azione di costoro e dell’accennato minor disvalore individuato dal legislatore nella condotta di mera istigazione all’accordo corruttivo non perfezionatosi.
Il comma 3, infine, sancisce il regime “secco” di procedibilità a querela per questo reato.
Attesa l’identità delle oggettività giuridiche presidiate dalla presente fattispecie penale rispetto a quella di cui all’analizzato art. 2635 c.c., sussistono le medesime problematiche in punto di legittimazione alla proposizione della querela. Anzi, esse risultano addirittura amplificate qui, per la mancata previsione derogatoria della procedibilità d’ufficio negli eventuali casi di distorsioni concorrenziali eziologicamente ricollegabili all’istigazione corruttiva – per la verità, piuttosto difficili da immaginare in questo delitto. In tal modo, il legislatore rende probabillmente impunito nella sostanza l’autore del fatto tipizzato dall’art. 2635-bis c.c. .
Ad ogni modo, il reato ex art. 2635-bis c.c. si presenta ontologicamente in tensione con il generale principio di offensività.
L’idoneità a mettere in pericolo l’affidamento dei terzi in trasparenza e buon funzionamento del mercato, infatti, può essere propria della condotta corruttiva di cui all’art. 2635 c.c., non anche della presente istigazione alla corruzione poi non sfociata nell’intesa corruttiva. In questo senso, mancando anche il perfezionamento dell’accordo, la norma finisce per criminalizzare il pericolo (di stipulazione del pactum sceleris) di un pericolo (di violazione degli obblighi d’ufficio/di fiducia mediante il comportamento antidoveroso convenuto nel pactum non stipulato), prestando il fianco a possibili censure di incostituzionalità. Sarebbe pertanto auspicabile una (ulteriore) modifica legislativa sul punto, per riattribuire al diritto penale il ruolo di extrema ratio che gli è proprio.
L’art. 5 del decreto di riforma ha poi introdotto delle pene accessorie per irrobustire la complessiva risposta sanzionatoria per i soggetti attivi del reato di corruzione passiva, ex art. 2635 comma 1 c.c., che siano “particolari” recidivi specifici[30].
Similmente al precedente art. 4, infatti, esso ha inserito una nuova disposizione all’interno del codice civile, ovvero l’art. 2635-ter c.c.[31] rubricato “Pene accessorie”. Ai sensi della medesima, in caso di nuova condanna per il reato di corruzione ex art. 2635 comma 1 c.c., pronunziata nei confronti degli apicali e degli esercenti funzioni direttive diverse all’interno dell’ente privato che siano già stati condannati per corruzione (art. 2635 comma 1 c.c.) o istigazione alla corruzione tra privati (art. 2635-bis comma 2 c.c.), si applica inderogabilmente la sanzione accessoria dell’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese[32] da uno a cinque anni[33].
Venendo infine al successivo art. 6, con tale disposizione il legislatore è intervenuto sulla responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato, di cui al d. lgs. n. 231/2001, riscrivendone il relativo art. 25, comma 1, lettera s-bis)[34] in senso maggiormente afflittivo.
Analogamente al rafforzamento punitivo appena esaminato, infatti, la norma, nel disciplinare la posizione dell’ente privato “corruttore”, prevede oggi che ad esso sia comminata una sanzione da quattrocento a seicento quote se è integrato il reato di corruzione attiva (art. 2635 comma 3 c.c.), essendo stata la previgente sanzione da duecento a quattrocento quote traslata sull’ipotesi di istigazione alla corruzione attiva (art. 2635-bis comma 1 c.c.).
Soggiunge inoltre la disposizione, per effetto del rinvio all’art. 9 comma 2 del d. lgs. 231/2001, che si applicano altresì ulteriori sanzioni interdittive. Il lungo elenco comprende: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze e concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la PA; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Per effetto dei principi generali della relativa disciplina (art. 37 d. lgs. 231/2001), tuttavia, l’impossibilità di iniziare o proseguire l’azione penale avverso l’autore del reato per mancanza di una condizione di procedibilità comporta l’impossibilità di procedere all’accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente privato, amplificando la portata delle problematiche relative al regime di procedibilità delle fattispecie analizzate[35].
In più, restano esenti da tali sanzioni, come pure dall’intera disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato (art. 1 comma 3 d. lgs. 231/2001), partiti politici e sindacati, in ragione delle funzioni di rilievo costituzionale che svolgono. Non è punito anche l’ente privato “corrotto”, non essendo destinatario della disciplina amministrativa in parola, sebbene sia possibile immaginare che riceva anch’esso un indebito vantaggio dal pactum sceleris, adesso che il nocumento del medesimo è espunto dall’area della tipicità penale: si pensi, ad esempio, al vantaggio tratto dalla società di certificazione in ordine alla propria corruttibilità, sub specie di fidelizzazione dei clienti e potenziale accrescimento del portafoglio degli stessi[36].
Chiude il decreto l’art. 7, recante “Disposizioni finanziarie”, di limitato interesse per la trattazione in esame.
Provando a tirare le somme dell’analisi effettuata, nel modello normativo risultante dal d. lgs. 38/2017 i reati di pericolo di mera condotta (artt. 2635, 2635-bis c.c.) risultano integrati senza che sia necessaria l’effettiva ricezione dell’indebita utilità da parte dell’intraneo corrotto – ciò che costituirebbe, sul piano civilistico, l’esecuzione della prestazione obbligatoria da parte della controparte (extraneus) dell’accordo corruttivo illecito[37]. Non solo: dopo la riforma, non è più necessaria neanche la (accettazione della) promessa di indebito vantaggio – la quale, in giurisprudenza, identifica il pactum sceleris penalistico e, quindi, il perfezionato contratto illecito nell’ambito civile[38].
La sufficienza dell’introdotta sollecitazione, anche non accettata, di una utilità non dovuta, nonché della offerta/promessa pure non accettata della stessa, rende astrattamente punibile anche la trattativa civilistica (art. 1337 c.c.) finalisticamente intrapresa nell’ottica della stipulazione dell’accordo corruttivo, in quanto comprensivo dell’azione inosservante di obblighi normativamente qualificati.
Ne deriva che, nella costruzione del nuovo art. 2635 c.c., il disvalore penale è incentrato su tale accordo[39], mentre in quella dell’introdotto art. 2635-bis c.c., esso risiede nella mera violazione normativa qualificata degli obblighi d’ufficio o di fedeltà da parte dell’intraneus[40], già ravvisabile in un momento temporalmente antecedente al pactum sceleris: quello in cui l’intento corruttivo soggettivo si oggettivizza in qualche modo, traducendosi in manifestazioni volontaristiche esterne rivolte alla “controparte”.
Tali riflessioni conducono ad affermare che, a fronte di un fenomeno corruttivo tradizionalmente indicato come “illecito do ut des“, la presente disciplina opera paradossalmente una criminalizzazione in assenza di des (del compimento del comportamento contrario ai doveri normativamente qualificati) ed eventualmente anche di do (qualora la promessa o l’offerta non vengano accettate ovvero la sollecitazione non sortisca esito positivo).
Emerge allora limpidamente la necessità di garantire, quantomeno in via interpretativa, l’effettiva afferrabilità del concetto di sollecitazione, il quale non spicca certo per agevole intelligibilità[41]. Esiste qui un rischio, particolarmente sensibile, che le indagini preliminari della Procura inizino sulla base di un equivoco: in ragione, cioè, di un infondato sospetto di sollecitazione del P.M., generato dall’errore cognitivo del presunto “sollecitato” in relazione alle esternazioni volontaristiche predette. Gli effetti prodottisi medio tempore durante il procedimento penale poi archiviato sarebbero devastanti, nel caso, non così raro nella prassi, di fuga mediatica delle appetibili notizie giudiziarie relative ad un’eventuale informazione di garanzia inoltrata[42]: il danno all’immagine degli apicali dell’ente privato sarebbe enorme[43], mentre addirittura incalcolabile parrebbe il danno reputazionale sofferto dall’ente privato, suscettibile di determinare, ad esempio, anche svalutazioni economiche dei titoli negoziati nei mercati regolamentati alle società quotate coinvolte.
Sul piano dell’effettività della repressione penale, all’esito di un’attenta lettura non può sfuggire che il regime di procedibilità delle fattispecie è rimasto calibrato su una non più attuale tutela di interessi privatistici, così pregiudicando fortemente l’applicabilità delle disposizioni sostanziali analizzate e finendo per configurare, in fin dei conti, zone franche per corrotti e corruttori. Paiono poi “espressamente” restare al di fuori, dall’ambito applicativo delle trattate norme penali sulla corruzione nel settore privato, quelle condotte corruttive che si sviluppano esclusivamente all’interno degli esercizi di attività d’impresa in forma individuale.
In conclusione, dunque, nonostante l’apprezzabile intento dichiarato di attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI nell’ordinamento italiano, la nuova disciplina penale del fenomeno corruttivo tra privati risultante dopo il d. lgs. 38/2017 appare profondamente insoddisfacente: da una parte, lascia il cancro della corruzione intatto e libero di svilupparsi nelle realtà private escluse dal perimetro applicativo delle sue norme sostanziali; dall’altra, assicura la probabile impunità a persone fisiche ed enti privati inclusi nell’ambito di applicazione delle stesse, in ragione delle sue perduranti[44] disfunzioni applicative determinate dalle inadeguate norme processuali. Il rischio concreto, insomma, è che “ad essere e restare privata non sia solo la corruzione ma anche la gestione dei suoi effetti”[45], sebbene essi risultino potenzialmente lesivi di interessi generali.
[1] Secondo il paradigma legislativo di cui all’art. 76 Cost..
[2] Per quanto riguarda la corruzione nel settore pubblico, essa è disciplinata all’interno del titolo II del codice penale, agli artt. 317 ss. c.p..
[3] La rubrica attuale, dunque, recita: “Disposizioni penali in materia di società, di consorzi e di altri enti privati”.
[4] Cfr. art. 1 D.P.R. n. 361/2000.
[5] Ma essi, d’altro canto, in quanto esercenti funzioni di rilievo costituzionale (rispettivamente artt. 39, 49 Cost.), risultano espressamente esenti dalla disciplina sulla responsabilità amministrativa derivante da reato ex art. 1, co. 3, d. lgs. n. 231/2001.
[6] Così Di Vizio F., La riforma della corruzione tra privati, 3 aprile 2017, il Quotidiano Giuridico – Sez.
Commerciale, Wolters Kluwer, pp. 3-4, consultato il 24.10.2017 e liberamente accessibile all’indirizzo http://www.quotidianogiuridico.it/documents/2017/04/03/la-riforma-della-corruzione-tra-privati, a cui si rinvia per approfondimenti sul punto.
[7] Per comodità espositiva, si riporta qui testualmente il contenuto letterale dell’art. 2635 c.c. come emendato dal decreto in argomento, mantenendo tuttavia l’uso del corsivo per le sole parti effettivamente differenti rispetto alla normativa previgente, al fine di evidenziarle:
«1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto è commesso da chi nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo.
- Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.
- Chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, è punito con le pene ivi previste.
- Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
- Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.
- Fermo quanto previsto dall’articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte».
[8] O clausola di sussidiarietà. Il riferimento è, qui, all’incipit dell’art. 2635 co. 1 c.c., che fa espressamente salva, ai fini dell’applicabilità della norma, l’eventualità che il fatto costituisca un più grave reato.
[9] Cioè mediante interposta persona, come meglio puntualizzato infra.
[10] Con tale termine si intende ricomprendere anche il denaro, che certamente rientra nel concetto di utilità. Esso risulta espressamente citato dalla disposizione in parola, probabilmente, per la maggiore attitudine del bene, rispetto ad altre indebite utilità, ad essere incluso nella prassi all’interno dell’accordo corruttivo.
[11] L’espressione “per sé o per altri”, nella norma attuale, risulta espressamente – rectius inequivocabilmente – riferita alle sole condotte della sollecitazione e della ricezione di utilità indebite. Viene dunque da chiedersi, prima facie, se, al pari della formulazione previgente (maggiormente chiara sul punto), continui ad essere criminalizzata l’accettazione della promessa di un indebito vantaggio da determinare nella sfera giuridica di terzi oppure risulti ora criminalizzata l’accettazione di promessa solo quando l’indebita utilità sia riferibile a chi, anche indirettamente, la effettua. Invero, l’affermazione normativa dell’integrazione del reato de quo mediante una sollecitazione di indebita utilità per altri pare orientare l’interprete verso la prima opzione prospettata. Avendo, infatti, il legislatore ravvisato disvalore penale in detta sollecitazione, per l’accettazione della promessa d’indebito vantaggio altrui la valutazione normativa dovrebbe ragionevolmente essere la stessa, atteso che, in entrambe le ipotesi, sussiste il pericolo di lesione dell’affidamento dei terzi nella trasparenza e buon funzionamento del mercato.
[12] Si tratta, in altri termini, del soggetto corrotto.
[13] Tale articolo disciplina l’istigazione alla corruzione tra privati e si caratterizza, tra l’altro, per il mancato perfezionamento dell’accordo corruttivo. Verrà compiutamente illustrato infra.
[14] A simili conclusioni giunge Stampanoni Bassi G., Modifiche alla disciplina della corruzione tra privati: pubblicato in G. U. il Decreto Legislativo 15 marzo 2017 n. 38, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 4.
[15] Di Vizio F., La riforma… , cit., p. 7.
[16] Unione delle Camere Penali Italiane, Osservazioni… , cit., p. 4.
[17] Anche qui, infatti, il legislatore ha previsto uno scarno riferimento a non meglio qualificati “enti privati”, che rende necessario uno sforzo ermeneutico per delineare l’ambito applicativo della norma: Unione delle Camere Penali Italiane, Osservazioni… , cit., p. 1.
[18] Ibid. .
[19] Quale corollario del principio di legalità ex artt. 25 co. 2 Cost, 1 c.p., ricollegato variamente in dottrina anche ai principi di necessaria personalità della responsabilità penale e di finalismo rieducativo della pena ex art. 27 co. 1 e 3 Cost..
[20] Tale articolo, rubricato “Corruzione attiva e passiva nel settore privato”, così recita:
“1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che le seguenti condotte intenzionali costituiscano un illecito penale allorché sono compiute nell’ambito di attività professionali:
- a) promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura ad una persona, per essa stessa o per un terzo, che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, affinché essa compia o ometta un atto in violazione di un dovere;(..)”.
[21] Di Vizio F., La riforma… , cit., p. 3.
[22] Ibid. .
[23] Secondo lo schema pubblicistico risultante dagli artt. 319-quater comma 2, 321 c.p..
[24] Concordemente, Di Vizio F., La riforma… , cit., p. 4.
[25] Cfr. artt. 120 ss. c.p., 90 ss. c.p.p. per la persona offesa dal reato, 74 ss. c.p.p. per il danneggiato dal reato.
[26] Bricchetti, La corruzione tra privati, in Diritto penale delle società, 2016, p. 533.
[27] Lo sforzo definitorio è sinteticamente riportato da Zoli L., Disfunzione applicativa dell’art. 2635 c.c. tra vecchia e nuova formulazione della «Corruzione tra privati». Nota a Trib. Udine, 6 giugno 2013 (dep. 12 settembre 2013), Pres. Missera, Est. Carlisi, in Diritto Penale Contemporaneo, 2014, Riv. 3-4, pp. 421-431, e segnatamente p. 429.
[28] Così Zoli L., Disfunzione… , cit., pp. 429-430, richiamando mirabilmente Corte Cost. n. 81/1996 sul canone costituzionale di tassatività-determinatezza della fattispecie incriminatrice e il principio di obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost. sul piano della stretta procedibilità.
[29] Per comodità espositiva, si riporta di seguito la formulazione della nuova disposizione (art. 2635-bis c.c.):
“1. Chiunque offre o promette denaro o altra utilita’ non dovuti agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di societa’ o enti privati, nonche’ a chi svolge in essi un’attivita’ lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, affinche’ compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedelta’, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 2635, ridotta di un terzo.
- La pena di cui al primo comma si applica agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di societa’ o enti privati, nonche’ a chi svolge in essi attivita’ lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, che sollecitano per se’ o per altri, anche per interposta persona, una promessa o dazione di denaro o di altra utilita’, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedelta’, qualora la sollecitazione non sia accettata.
- Si procede a querela della persona offesa”.
[30] La recidiva specifica è generalmente disciplinata, nel codice penale, dagli artt. 99 comma 2 n. 1, 101 c.p..
[31] Per comodità espositiva, si riporta di seguito la nuova disposizione (art. 2635-ter c.c.): “La condanna per il reato di cui all’articolo 2635, primo comma, importa in ogni caso l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese di cui all’articolo 32-bis del codice penale nei confronti di chi sia gia’ stato condannato per il medesimo reato o per quello di cui all’articolo 2635-bis, secondo comma”.
[32] Tale interdizione è generalmente disciplinata dal’art. 32-bis c.p..
[33] Art. 30 c.p..
[34] Per comodità espositiva, si riporta di seguito la nuova disposizione in parte qua (art. 25 co. 1 lett. s-bis) c.c.):
“1. In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie: (..) per il delitto di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 2635 del codice civile, la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote e, nei casi di istigazione di cui al primo comma dell’articolo 2635-bis del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote. Si applicano altresì le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2”.
[35] Di Vizio F., La riforma… , cit., p. 7.
[36] Ibid. .
[37] Una conferma sul versante civile sembra potersi ricavare da Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 6273/1984 in tema di art. 318 c.p., che ha qualificato la consegna del denaro seguente alla (accettata) promessa come esecuzione dell’illecito contratto.
[38] Cfr. nota precedente.
[39] Secondo Di Vizio F., La riforma… , cit., p. 4, condivisibilmente, l’accordo corruttivo rappresenta il fulcro del disvalore penale nella nuova fattispecie.
[40] Unione delle Camere Penali Italiane, Osservazioni allo schema di Decreto Legislativo recante l’attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato (atto n. 365) dell’Unione delle Camere Penali Italiane, 24 gennaio 2017, p. 1. Più generalmente, dalla vigente formulazione dei reati di corruzione tra privati ex art. 2635 c.c. e istigazione alla corruzione tra privati ex art. 2635-bis c.c. emergerebbe una prospettiva di tutela penale cd. lealistica: Di Vizio F., La riforma… , cit., pp. 6-7.
[41] Con riferimento alla sollecitazione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio ex art. 322 comma 4 c.p., ad esempio, un apprezzabile tentativo definitorio si ravvisa in quelle pronunce che, ai fini dell’integrazione del reato, affermano la necessità che la condotta, pur non dovendo integrare quell’aspetto significativo e pregnante di costrizione anche per induzione che caratterizza la diversa concussione (oggi “spacchettata” negli artt. 317, 319-quater c.p.), si manifesti come forma di astuta e serpeggiante pressione psicologica sul corruttore (privato), disposto, dal canto suo, a recepirla anche per tornaconto personale, in forza di una valutazione comparata di vantaggi e svantaggi, mirante ad evitare sanzioni per il proprio comportamento illegale (Cass. Pen., sent. n. 15117/2003). Resta tuttavia evidente la difficoltà, anche ermeneutica, di fissare saldamente punti fermi per il comportamento di sollecitazione penalmente rilevante, col rischio “di imboccare la scorciatoia degli “indici sintomatici” ove finisce per valutarsi più l’autore che il fatto”: Unione delle Camere Penali Italiane, Osservazioni… , cit., p. 2.
[42] Impropriamente detta “avviso di garanzia”, di cui all’art. 369 comma 1 c.p.p..
[43] Unione delle Camere Penali Italiane, Osservazioni… , cit., p. 2.
[44] Criticità nell’applicazione delle norme, nella formulazione previgente determinata dalla riforma del 2012, erano già state messe in luce a fine 2014 da Zoli L., Disfunzione… , cit. .
[45] Di Vizio F., La riforma… , cit., p. 6.
A Cura di Dott. Daniele D’Antonio