La vessatorietà delle clausole tra diritto pubblico e diritto privato

Di Angelo D’Onofrio

Le clausole vessatorie e la disciplina a tutela del consumatore

È cosa nota che l’art. 3 della Costituzione prescrive, nei suoi due commi, l’uguaglianza di tutti i consociati rispetto alla legge (cd. uguaglianza formale) nonché l’eliminazione di qualsiasi condizione ostativa di un’effettiva parità tra tutti (cd. uguaglianza sostanziale) a cui l’ordinamento fattivamente si impegna. In altri termini, per quanto non sia predicabile un’uguaglianza ad ogni costo, è quantomeno auspicabile che si riescano a colmare scompensi di natura sociale, economica o di altro genere al fine di assicurare un pieno sviluppo della personalità dei singoli. Ebbene tra gli ostacoli di ordine economico che, in maniera prepotente, il mercato degli ultimi decenni ha presentato v’è l’asimmetria di mezzi ed informazioni sussistente tra imprenditori e consumatori.
Il tema non è di facile risoluzione perché richiede di determinare il giusto contemperamento tra ragioni d’equità, da una parte, e libertà nelle trattative, dall’altra, chiedendosi se l’autonomia privata sia suscettibile di compressioni ove esercitata in condizioni di squilibrio[1].

Partendo ab ovo, è necessario fare riferimento a due disposizioni che per lungo tempo hanno rappresentato l’unico baluardo avverso gli abusi di posizioni dominanti degli imprenditori a danno dei consumatori: gli artt. 1341 e 1342 c.c. Il legislatore del ’42 era preoccupato dell’utilizzo di condizioni generali di contratto[2], che sovente vengono predisposte nelle contrattazioni di massa, e dai contratti conclusi mediante moduli o formulari (anche detti per adesionem)[3] poiché lasciavano trapelare una forte unilateralità nella determinazione del regolamento contrattuale. A ragion veduta, perciò, si scandirono alcuni accorgimenti consistenti, per l’aderente, nell’obbligo di conoscenza delle clausole contrattuali unilateralmente predisposte con l’ordinaria diligenza, per il disponente, invece, in quello di far approvare per iscritto talune clausole tipizzate.

Com’è facile notare, questa disciplina non si rivolgeva direttamente al consumatore piuttosto che all’imprenditore, bensì muoveva da considerazioni marcatamente oggettive, valorizzando, cioè, il solo fatto che il contratto fosse riconducibile, in sostanza, ad una sola parte. Successivamente, anche sulla scorta delle istanze comunitarie sempre più pressanti, il Legislatore è stato costretto ad integrare gli strumenti di tutela previsti con altri istituti che si riferissero in modo precipuo al rapporto asimmetrico imprenditore-consumatore. Tant’è che ha visto la luce un capo ad hoc nel codice civile recante le norme sui “contratti dei consumatori” (artt. 1469bis e ss.)  immesso nella normativa dei contratti in generale. Sinteticamente, dal punto di vista oggettivo, le norme richiamate prescindono dal tipo contrattuale, facendosi piuttosto riferimento in modo apodittico a contratti “aventi ad oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi”[4]. Ovviamente questa disciplina esplica la sua portata applicativa rispetto a contratti a contenuto standardizzato, poiché, nel caso in cui vi sia stata una negoziazione, le clausole che ne sono state oggetto non sono da intendersi vessatorie[5].

Ma quando una clausola può dirsi vessatoria? Il Codice sul punto è adamantino: quando genera” malgrado la buona fede[6],  un significativo squilibrio di diritti e di obblighi a carico del consumatore”.

L’art. 1469ter.2 ha cura di precisare che lo squilibrio non attiene la determinazione dell’oggetto del contratto o del corrispettivo purché formulati in modo chiaro e comprensibile[7]. A tal riguardo il Codice del Consumo esplicita una lista di clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria (cd. grey list) ed un’altra, più ristretta, di clausole così gravose da essere assolutamente vessatorie, essendone inibita la prova contraria (cd. black list). La prova in discorso, che permette di vincere il giudizio di vessatorietà, consiste nella dimostrazione che la clausola sia stata “oggetto di trattativa individuale”, cioè che sia riconducibile ad ambo le parti che, nonostante lo squilibrio, hanno inteso inserirla nel contratto; tale onere probatorio ricade sempre sull’imprenditore, trattandosi di fatto impeditivo dell’altrui pretesa (che, in specie, è data dall’accertamento[8]della vessatorietà della clausola fatta valere dal consumatore).

Vi sono, tuttavia, anche dei limiti soggettivi da prendere in considerazione nel tracciare la normativa della contrattazione consumeristica; infatti, mentre gli artt. 1341 e 1342 hanno riguardo alla posizione tenuta dalle parti nel contratto, l’art. 1469bis.2 allude al “professionista” ed al “consumatore”. Il primo è colui il quale produce o distribuisce beni o servizi, in relazione ai quali predispone i contratti, nel contesto della sua attività imprenditoriale o professionale; il secondo, invece, è colui che, persona fisica o persona giuridica, non agisce nel quadro della sua attività professionale. Si badi, dunque, a comprendere come il concetto giuridico, evocato qui, di consumatore sia “mobile”, in quanto ciascuna persona può cumulare in sé la qualifica di professionista o di consumatore a seconda dei motivi che lo inducono alla stipula del contratto[9].

È da notare che l’entrata in vigore di norme a tutela specifica del consumatore non impediscono l’applicazione degli artt. 1341-1342, nella misura in cui queste ultime disposizione si presentino di maggior favore per il consumatore; per esempio ciò può accadere quando una delle clausole enumerate nell’art. 1341 coincidano con quelle rientranti nella grey list e, a dispetto del fatto che siano state oggetto di negoziazioni, non siano state approvate per iscritto. Per coerenza sarebbe, ora, opportuno trattare dei rimedi successivi e preventivi introdotti a garanzia dei diritti dei consumatori, nondimeno il dovere di sintesi impedisce di poterne discettare, e si rinvia, pertanto, a trattazioni più specifiche.

Le clausole abusive sono configurabili nei contratti pubblici? [10]

La manifestazione più evidente del progressivo riallineamento tra il diritto dei contratti pubblici e quello civilistico dei contratti privatistici è l’applicazione analogica degli artt. 134-1342 e degli artt. 1469bis e ss. nella contrattualistica pubblica.

D’altra parte la previsione di procedure di evidenza pubblica per la selezione del contraente non deve costituire un argine eretto contro l’adozione di soluzioni normative coerenti con gli acquisiti principi del nostro ordinamento, tra cui il favor per il contraente debole. Pertanto, secondo quanto sostenuto prima, ricorrerà l’applicazione della normativa a tutela del consumatore laddove la P.A. si interfacci con una persona fisica o giuridica che assuma tale qualifica nello specifico affare da concludersi, tenendo conto di tutti i limiti oggettivi e soggettivi esposti supra.

Quando, viceversa, non sono configurabili i suddetti presupposti (ad es. il contratto viene concluso dalla P.A. con un professionista privato) si potranno applicare gli art. 1341-1342, ove ne ricorrano le condizioni. Da ciò ne inferisce che se la Pubblica Amministrazione predispone contratti per adesione tramite condizioni generali o moduli o formulari, in quanto non diversamente disposto, si dovrà applicare l’obbligo di approvazione scritta per le clausole onerose. Questa soluzione è stata ritenuta coerente dalla Corte di Cassazione, che l’ha giustificata anche nel caso di licitazione privata, potendo in simili ipotesi sorgere l’esigenza protettiva dell’altrui contraente, la cui libertà di contrattare è minata dal potere della P.A. nel divisare il regolamento contrattuale.

Invero gli Ermellini hanno, a più riprese, confermato il principio di diritto per cui non è applicabile l’art. 1341 c.c. nel caso di un contratto d’appalto che richiami disposizioni contenute nel Capitolato generale o speciale, pur essendo l’uno e l’altro predisposti dalla solo parte contrattuale pubblica, perché si tratta semplicemente di una determinazione del contenuto contrattuale per relationem che, tuttavia, si presume concordato da entrambe le parti, diventando perciò recessiva l’esigenza di tutelare il contraente debole. Ulteriore “beneficio” riconosciuto dalla giurisprudenza alla Pubblica Amministrazione consiste nella sufficienza della forma “pubblica” del contratto, ammesso che il contratto sia concluso in questa forma a mezzo di ufficiale rogante, che dispensa dall’approvazione per iscritto delle clausole vessatorie che sono anche onerose (cioè enumerate dal secondo comma dell’art.1341 c.c.), fermo restando che, se la clausola è vessatoria, ciò non impedisce al consumatore di insorgere invocandone la nullità “di protezione”[11].

D’altronde ciò si spiega facilmente se si tiene conto delle formalità notarili, giacché queste pongono particolare attenzione alla conoscenza che le parti richiedenti il rogito debbono avere (alla lettura del pubblico ufficiale fa seguito la sottoscrizione su ogni foglio!), ma ciò non significa che rispetto a certe clausole astrattamente abusive ci sia stato un accordo tra le parti. Si possono, conclusivamente, fare due esempi certi di clausole abusive ove, la qualità di parte assunta dalla P.A. nel contratto stipulato ne comporta un atteggiarsi specifico: quelle di tacita proroga o rinnovazione del contratto e quelle compromissorie. Nel primo caso, infatti, l’art. 12 del r.d. n. 2440 del 1923 in materia d’appalti stabilisce che i contratti stipulati dalla P.A. debbono avere “termini e durata certi e non possono essere stipulati con onore continuativo per lo Stato, se non per ragioni di assoluta convenienza o necessità, da indicarsi nel decreto di approvazione del contratto”. Rispetto alla clausola compromissoria, invece, ove nel bando di gara la parte pubblica palesi la volontà di deferire ad arbitri le controversie riguardanti il contratto stipulando (volontà che abbisogna di un’apposita approvazione preventiva) si è inteso corroborare la condizione dell’impresa privata, la quale può, entro 20 giorni dall’aggiudicazione definitiva, ricusare l’inserimento di tale clausola nel contratto.

 

 

[1] Cfr. NUZZO, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975, p.92

[2] Art. 1341 c.c.

[3] Art. 1342 c.c.

[4] Restrizione, quest’ultima, ritenuta arbitrariamente limitante in confronto alla direttiva comunitaria cui è stata data attuazione (Dir. N. 93 del 5 Aprile 1993)

[5] Sul punto si veda infra

[6] Trattasi di una traduzione letterale dell’espressione adoperata nel testo della Direttiva di cui supra, secondo alcuni Autori è un mero refuso, per altri invece è un’allusione ad un concetto soggettivo di buona fede, come a dire che a nulla rileva, da parte dell’imprenditore, il non aver contezza dell’abusività della clausola o addirittura che questi ritenga la stessa pienamente legittima. Invero, nella misura in cui si accoglie questa tesi, va detto che la formula diventa abbastanza pleonastica e scarsamente prescrittiva.

[7] L’obbligo di trasparenza, insieme a quello di buona fede, innervano la disciplina che si sta descrivendo e permettono di attrarre nell’area dell’abusività anche elementi che il Legislatore ha inteso lasciare, tendenzialmente, alle regole di mercato.

[8] Non a caso si adopera questo termine, il quale reagisce sullo strumento di tutela azionata dal consumatore: la nullità relativa.

[9] Sul punto si rinvia, per approfondimenti, a BIANCA, 3. Il contratto, p. 377, 2000. L’Autore illustra come la tesi del “motivo d’azione” sia poco confacente alla ratio della normativa a tutela del consumatore ed illustra le possibili alternative.

[10] Cfr. S. CACACE, Clausole abusive e pubbliche amministrazioni

[11] Cass. Civ. sez. I 28 Agosto 2004, n. 17289

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